Empatia: sappiamo davvero cos’è?
Empatia è una parola che ormai conosciamo tutti, appartiene al linguaggio comune, viene utilizzata tantissimo ed è ritenuta una competenza necessaria nelle relazioni, nell’apprendimento, nel lavoro di team e per un leader. Ma se chiedessi a ciascuno di voi, che sta leggendo questo articolo, di scriverne una definizione, cosa emergerebbe? Quali sfumature o significati?
Per parlare di empatia e costruire insieme un significato condiviso è importante partire dagli aspetti neurobiologici.
Esiste nel nostro cervello un reticolato di aree, neuroni e connessioni che compongono il cervello sociale, ovvero quel cervello cablato per riconoscere, gestire e curare le relazioni. In termini evolutivi infatti, se non ci fossimo organizzati in gruppi e non avessimo strutture cerebrali dedicate, come specie non saremmo sopravvissuti. Un particolare tipo di neurone è interessante per comprendere l’empatia: il neurone specchio.
I neuroni a specchio
Questa tipologia di neuroni fu scoperta dal Professor Giacomo Rizzolatti e dalla sua équipe, nella corteccia motoria delle scimmie. In una situazione di laboratorio osservarono che nelle scimmie esiste un neurone motorio che si attiva sia quando l’animale compie un atto motorio, sia quando lo osserva negli altri.
A seguito di questa evidenza, questi neuroni sono stati ritrovati anche nell’uomo, in diverse aree cerebrali (non solo quella motoria) e per questo si tende a parlare di meccanismo specchio: cioè “la capacità di trasformare l’informazione proveniente dal mondo esterno, o di azioni provenienti dal mondo esterno (emozionali e non), in atti motori dell’individuo”.
Questi neuroni consentono la conoscenza esperienziale: ovvero quello che fanno le altre persone fa risuonare qualcosa che sappiamo fare anche noi.
Neuroni a specchio e relazioni
Ma perché riteniamo che questo meccanismo a specchio sia alla base dell’empatia e quindi delle competenze che ci consentono di relazionarci con gli altri? Quando osserviamo le azioni degli altri, non solo siamo in grado di “vedere” l’azione, ma ne cogliamo l’intenzione. Il “come” una persona muove una gamba ci consente di capire se sta facendo un passo avanti, sta dando un calcio a un pallone o si sta difendendo da un oggetto che lo sta per colpire. Siamo ovvero in grado di capire l’intenzione e di rispondere adeguatamente. Questo si verifica per gli atti motori, così come per le emozioni.
A questo punto potreste chiedervi: ma se l’empatia è nel nostro cervello, come mai può verificarsi che siamo più solidali e ci sentiamo più vicini e commossi per la morte di Kobe Bryant e sua figlia Gianna, rispetto alle migliaia di bambini che muoiono in Siria? L’empatia è alla base della vita sociale e ci consente di sentire gli altri, ma nel suo funzionamento entrano altri fattori: cognitivi, culturali, educativi, mediatici, che si influenzano a vicenda. Ormai è noto che più sentiamo simili a noi gli altri, maggiormente saremo in grado di avere empatia, e tendenzialmente una stella dell’NBA americana è più simile a noi di un bambino siriano, così come un coniglio lo sentiamo più vicino di un coccodrillo. E’ evidente che l’aspetto culturale ed educativo modula la nostra percezione e i valori che abbiamo definiscono quanto sentiamo vicini o meno gli altri (esseri viventi, piante, rocce…).
Daniel Goleman e il modello tripartito
Per comprendere quanto sia articolata questa abilità, è molto interessante il modello sviluppato da Daniel Goleman. Se seguiamo il suo modello, coltivare l’empatia passa attraverso il riconoscimento delle diverse modalità con cui ci mettiamo in relazione con l’altro e nel trovare un equilibrio tra questi tre aspetti.
Empatia cognitiva
Siamo capaci di assumere il punto di vista dell’altro, di comprendere il suo stato mentale e di essere consapevoli e gestire le nostre emozioni mentre valutiamo le sue. Ci consente di comprendere il mondo dell’altro, di essere consapevoli e accettare la sua prospettiva, il suo modo di vedere le cose e di pensare. E’ la nostra capacità di concentrarci sull’altro e si appoggia sui circuiti top-down della nostra mente.
Cosa la alimenta? Una natura curiosa, che guarda all’altro e che è pronta ad imparare da tutti. Emerge fra i 2 e i 5 anni di età e continua a svilupparsi fin nell’età adolescenziale. Ci consente di sviluppare la “teoria della mente”: comprendere che gli altri hanno sentimenti, desideri propri e spesso diversi dai nostri. Possiamo riflettere su ciò che l’altro può pensare e volere.
Empatia emotiva
E’ radicata nella nostra lunga storia evolutiva: riusciamo a provare, a sentire ciò che prova l’altro. Vengono attivati i circuiti bottom-up facendo sì che la sintonia che si attiva ci faccia percepire nel nostro corpo gli stessi stati emotivi che percepiamo negli altri.
Cosa la alimenta? I nostri neuroni specchio e i circuiti del cervello sociale: leggono le emozioni, le intenzioni e le azioni degli altri e attivano le regioni corrispondenti nel nostro cervello. Abbiamo una percezione interiore di ciò che sta avvenendo nell’altro.
I circuiti alla base dell’empatia emotiva iniziano ad essere attivi già nell’infanzia (dai 6 mesi di vita) – prime esperienze di risonanza con gli altri. Lo sviluppo del nostro cervello fa sì che siamo capaci di sentire le emozioni degli altri prima di pensare al concetto di altri. L’empatia emotiva “è incarnata”: si sente nel corpo, si basa sulla nostra capacità di provare le emozioni a livello viscerale.
Preoccupazione empatica
Spinge all’azione, mi interesso all’altro, mi preoccupo, aiuto. Provo compassione e solidarietà, mi interessa il benessere degli altri.
Cosa la alimenta? L’architettura neurale alla base delle cure parentali. Nei mammiferi questo consente di dirigere l’attenzione e la cura verso i piccoli che non sono in grado di sopravvivere senza i genitori. “La preoccupazione empatica compare già nella prima infanzia: quando un bambino ne sente piangere un altro, si mette a piangere a sua volta. Questa risposta è innescata dall’amigdala (…)” Stando a una teoria neurale, l’amigdala attiva i circuiti bottom-up del bambino che sente l’altro piangere facendogli provare la stessa tristezza e lo stesso disagio. Al contempo i circuiti top-down rilasciano ossitocina, che entra in gioco quando ci prendiamo cura degli altri, che stimola un rudimentale senso di preoccupazione e di buona volontà nel secondo bambino.
E infine…è una questione di sani confini
Se una di queste parti prende il sopravvento, il rischio è di non agire la nostra empatia, ma qualcos’altro. Per coltivare e agire l’empatia è fondamentale mantenersi connessi alla propria consapevolezza e riconoscere i confini relazionali. Molto spesso, infatti, crediamo di essere in empatia ma in realtà potremmo non essere in grado di definire se l’emozione che proviamo è nostra o dell’altro/altri.
Di che confini stiamo parlando? Quali sono i possibili confini che abbiamo con gli altri? E quali sono i “buoni confini” che consentono l’empatia?
Confini personali
Ora provate a pensare a una membrana permeabile ma definita come in figura 1. Come si nota i confini tra le due membrane sono ben definiti, chiari e nello stesso tempo consentono il sentire dell’altro. Questi sono i buoni confini dell’empatia: sono consapevole dei miei pensieri e del mio stato emotivo, posso sentire le emozioni e comprendere i pensieri dell’altro.
Quando i confini sono muri non c’è relazione perché non c’è scambio con l’altro, come in figura 2. Quando non ci sono confini c’è fusione che porta a confusione, come in figura 3. Questa è una tipica situazione in cui potremmo credere di essere in empatia, ma in realtà siamo fusi con l’altro: qui il rischio è che non sappiamo chi prova cosa, chi gestisce chi, se stiamo agendo per un nostro bisogno o per il bisogno dell’altro, qui non siamo in grado di agire per l’altro e di attivare un ascolto empatico.
Nessuna delle tre situazioni è sbagliata o migliore, nello stesso tempo solo nella prima situazione possiamo dire di essere in empatia.
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