Nel documento “Un’Unione dell’uguaglianza: la strategia per la parità di genere 2020-2025” emesso dalla Commissione Europea a marzo 2021, si enuncia chiaramente l’intento di trovare una nuova strategia volta a scardinare vecchie logiche di potere che insidiano il progresso nella società, per andare verso la promozione di nuovi equilibri fra i generi. Con ciò si intende, tra le altre cose, colmare le differenze tra maschi e femmine nel mercato del lavoro e raggiungere un maggior equilibrio nella rappresentanza di genere nei processi decisionali. Ed è proprio relativamente a questo che ci poniamo la domanda: quante donne nelle nostre aziende occupano effettivamente posizioni di leadership?

Nello studio Gender Diversity Index 2021 (GDI), presentato dall’associazione European Women on Boards, è stata analizzata la rappresentanza femminile a vari livelli, di 668 società quotate di 19 paesi europei. Dai dati raccolti è emerso che, molto probabilmente, non sarà raggiunto l’obiettivo di avere entro il 2025 un 40% di donne nei CdA e che solo il 7% delle aziende (circa 50 su 668) è guidata da un amministratore delegato donna.

Una delle ragioni che potrebbe contribuire a spiegare questi dati è la presenza di vecchi stereotipi di genere, che ancora guidano in maniera più o meno implicita le nostre scelte, impattando negativamente sul raggiungimento da parte delle donne delle cariche aziendali più alte. Tali credenze alimentano il cosiddetto “effetto del soffitto di cristallo”, che la ricerca sociale riferisce come una sorta di barriera trasparente ed insuperabile, che blocca le donne impedendogli di ricoprire ruoli manageriali e delegittimandole come leader. La presenza di associazioni del tipo think manager – think male (pensa a un manager – pensa a un uomo) o dell’attribuzione alle donne di caratteristiche quali debolezza, fragilità, accoglienza, empatia, che sembrerebbero collidere con l’idea del leader forte e capace di prendere decisioni difficili, testimoniano come le posizioni di responsabilità siano spesso spontaneamente ancora collegate al genere maschile. È interessante osservare anche come per le posizioni di potere, nella nostra mente si verifica un doppio allineamento di stereotipi: una determinata immagine della donna, compassionevole ed empatica, ed una certa idea di leadership verso cui tale immagine si pone in antitesi.

Scoperte sorprendenti

In una nostra recente ricerca, abbiamo rilevato alcuni dati sorprendenti a proposito della differenza di genere sulle singole competenze dell’intelligenza emotiva, tali da suscitare degli interrogativi sull’attribuzione di determinate caratteristiche ai maschi piuttosto che alle femmine o viceversa, e da indurci a fare delle riflessioni di più ampio respiro in merito a questo tema.

Utilizzando il database di Six Seconds, abbiamo analizzato gli esiti di 12.833 compilazioni del questionario di intelligenza emotiva Six Seconds Emotional Intelligence (SEI) Assessment, eseguite da 6.301 femmine (49,1%) e 6.532 maschi (50,9%), di età compresa tra i 18 e 76 anni ed effettuate da gennaio 2018 a dicembre 2020.

Il modello teorico Six Seconds di intelligenza emotiva prevede la suddivisione del costrutto in otto competenze: comprendere le emozioni, riconoscere i sentieri emozionali, utilizzare il pensiero sequenziale, navigare le emozioni, trovare la motivazione intrinseca, esercitare l’ottimismo, fare crescere l’empatia e perseguire obiettivi nobili (se vuoi approfondire il nostro modello di intelligenza emotiva clicca su: https://italia.6seconds.org/il-modello-six-seconds/).

In particolare, abbiamo calcolato la media di ciascuna competenza eseguendo più T-test per campioni indipendenti, utilizzando come predittore il genere (due livelli F e M) e come variabile dipendente di volta in volta ogni singola competenza. Qui di sotto puoi vedere i risultati della nostra analisi.

Nella tabella, notiamo che per ciascuna competenza è presente una differenza tra maschi e femmine che ha significatività statistica, vale a dire che non è dovuta alla casualità del campione.

È interessante osservare che proprio laddove nel nostro immaginario stereotipico le donne rispetto gli uomini sarebbero più inclini ad empatizzare (ovvero ad attribuire stati mentali agli altri e a rispondere con risposte affettive appropriate), il dato oggettivo mostra un punteggio di empatia più elevato nei maschi. Viceversa, laddove si ritiene più maschile la tendenza a sistematizzare, al ragionamento logico di tipo “se…, allora…”, ecco che osserviamo un punteggio più elevato delle donne proprio nella competenza dell’uso del pensiero sequenziale, che lo stereotipo inquadra invece come tratto maschile.

Una nuova lente di osservazione: la centralità della persona

Questi dati ci offrono lo spunto per spostare la questione della differenza di genere, dalla determinazione di caratteristiche femminili e maschili al tema della centralità della persona.  Il discorso, quindi, non è più quanto quel tratto appartiene a te in quanto maschio o femmina, ma quanto una certa qualità ti identifica come individuo.

Il punto centrale diviene imparare a sviluppare quella consapevolezza di sé che permette di riconoscere le nostre inclinazioni, emozioni, desideri, debolezze. Una consapevolezza che ci permette di comprendere chi siamo, come agiamo, quali sono i meccanismi che mettiamo in atto di fronte a situazioni sfidanti, comprenderne i motivi ed il senso. Così facendo, le caratteristiche che emergono da questo sguardo (come ad esempio l’ascolto, la capacità di relazionarsi, di prendersi cura, l’empatia, ed i valori che ad esse associamo), non ci interessa più farle rientrare nella categoria del femminile o maschile, poiché le osserviamo come qualità umane ed in quanto tali ad altissimo potenziale. Il saper riconoscere questo potenziale è il nostro potere più grande: il potere personale.

Il focus è riconoscerci, comprendere ciò che proviene da noi, le nostre qualità. Questo ci conferisce quel potere personale che ci consente di agire come leader di sé stessi.

Ciascun leader, maschio o femmina che sia, prima di esserlo per gli altri lo è per sé stesso, perché ha fiducia in sé, sa accettarsi, comprendere la sua realtà ed il suo ambiente; sa gestire le proprie emozioni e relazionarsi con gli altri in modo autentico e affrontare i conflitti con autorevolezza. Riconoscendo le proprie risorse, egli sa riconoscere, apprezzare e valorizzare quelle altrui, promuoverne la crescita senza avere il bisogno di imporsi in modo coercitivo e aggressivo. È in sostanza un leader emotivamente intelligente.

Capiamo bene come da questa prospettiva non regga più l’idea del dualismo donna-debole/leader-forte, poiché nel considerare il valore ed il potere della persona non abbiamo più bisogno di affidarci agli stereotipi.

Il tema principale non riguarda più quindi l’essere emotivi o meno per poter occupare una carica aziendale importante, ma riguarda il sapere gestire l’emotività affinché in tale carica essa divenga qualità di inestimabile valore.

Attraverso l’allenamento di tutte le competenze dell’intelligenza emotiva, possiamo fare in modo che ciascun individuo sia in grado di riconoscere il proprio potere personale ed incarnare uno stile di leadership che dia spazio a sé stesso e agli altri attraverso modalità basate sulla relazionalità, responsabilità, trasparenza, coinvolgimento, cooperazione e motivazione. Si tratta di attivare una trasformazione nella cultura manageriale, che potrebbe rappresentare quella nuova strategia di cui si narrava all’inizio dell’articolo.

Adoperiamoci affinché le nostre aziende divengano palestre di intelligenza emotiva, creando le condizioni per mettere in atto questo cambiamento culturale. Sei pronto ad attivarti per questa sfida?

Deborah Giovannoni, Redazione EQ Biz

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