Da diversi anni ormai, molti paesi sono formalmente impegnati nei confronti delle politiche di inclusione e di riduzione delle diversità, al fine di mettere in atto azioni concrete volte a promuovere e garantire tali principi nella società e nel lavoro.

Nelle organizzazioni la questione della diversità è una sfida importante ed esserne consapevoli permette di progettare delle azioni calibrate a valorizzare effettivamente le risorse umane a disposizione, potenziando le peculiarità di ciascun collaboratore.

La diversità sulla quale ci proponiamo di riflettere non è però quella che deriva dall’eterogeneità etnica, religiosa e culturale delle minoranze, o dalla disabilità ed il genere, ma è quella risultante dalla differenza di età anagrafica che si riscontra nei dipendenti di molte imprese. A seguito del prolungamento dell’aspettativa di vita (sino in media a 79 anni per gli uomini e 84 per le donne) e dell’età pensionabile, il gap generazionale può arrivare ad un range di circa 40 anni tanto che, nei contesti lavorativi può esservi la compresenza di varie generazioni, ognuna con valori, esperienze e aspirazioni distinte.

Essere nati in periodi diversi, può realmente significare avere un modo di pensare al lavoro differente, un modo di comunicare e di agire con modalità divergenti all’interno del contesto di lavoro. Pensiamo ai lavoratori che hanno più di 60 anni o ai “boomers” – nati tra la metà degli anni ’40 ed il ’60, e a quanto ci sembra siano più legati rispetto ai giovani ai loro datori di lavoro, con i quali hanno costruito tutta la carriera. Oppure, pensiamo ai Millennials – la generazione Y nata tra l’80 ed il ’95, alla loro esperienza nel comunicare attraverso l’uso della tecnologia con la quale sono cresciuti. Quanto è diversa l’interazione su piattaforme, dall’approccio sicuramente più datato dell’incontro vis-à-vis?

Come possiamo far fruttare al meglio il potenziale così ricco che nasce dalla differenza intergenerazionale? Come far sì che la coesistenza di più generazioni sia stimolo di crescita e arricchimento per l’azienda e per la persona stessa?

Partiamo innanzitutto dal riconoscere quali sono realmente le differenze tra generazioni e lo facciamo in riferimento all’intelligenza emotiva, competenza trasversale a qualsiasi sapere meramente tecnico. Estrapolando le informazioni sul triennio 2018-2020 dalla banca dati Six Seconds, che contiene i dati risultanti dalle compilazioni del Six Seconds Emotional Intelligence Assessment (SEI), abbiamo eseguito un’analisi multivariata di varianza (MANOVA) da cui abbiamo tratto alcuni elementi oggettivi, utili per riflettere sulla diversità generazionale in ambito aziendale.

 

Campione di riferimento e risultati

Il campione che abbiamo preso come riferimento è formato da 12.833 individui, che abbiamo suddiviso in quattro gruppi a seconda della fascia d’età (18-29 = giovani adulti; 30-44 = medi adulti; 45-59; grandi adulti; 60-76 anziani). Qui di seguito riportiamo il grafico a torta in cui è rappresentata la suddivisione in percentuale del campione a seconda della fascia di appartenenza.

Figura 01. Suddivisione del campione per fasce d’età

Il modello teorico Six Seconds di intelligenza emotiva da cui è stato tratto il questionario SEI, si compone di otto competenze, raggruppate in tre aree distinte, precisamente: Self Awareness (Comprendere le emozioni, Riconoscere i sentieri emozionali), Self Management (Utilizzare il pensiero sequenziale, Navigare le emozioni, Trovare la motivazione intrinseca, Esercitare l’ottimismo) e Self Direction (Far crescere l’empatia e Perseguire obiettivi eccellenti). Qui in basso riportiamo i grafici con i risultati medi della MANOVA suddivisi in fasce d’età e relativi a ciascuna competenza all’interno dei tre domini consapevolezza, gestione e direzione.

Notiamo nella figura 02, riferita all’area Self Awareness, il trend secondo cui essere più grandi equivale ad avere maggiore competenza nell’identificazione accurata e interpretazione dei sentimenti, e nell’individuazione di reazioni e comportamenti ricorrenti. Le differenze tra le medie che osserviamo sono statisticamente significative.

Figura 02. Medie delle competenze di intelligenza emotiva dell’area Self Awareness e fasce d’età, tratte dall’analisi multivariata di varianza (MANOVA)

Nell’area Self Management, di cui riportiamo i valori medi in figura 03, si può osservare la stessa tendenza riscontrata nel dominio precedente relativamente all’abilità di usare il pensiero sequenziale. Tuttavia, nelle restanti competenze rileviamo un andamento diverso. Osserviamo infatti che nel navigare le emozioni, nel trovare la motivazione intrinseca e nell’esercitare l’ottimismo, la fascia dei medi adulti risulta avere punteggi più elevati, statisticamente significativi, sia rispetto alla fascia di età più giovane, sia rispetto ai gruppi più grandi.

Figura 03. Medie delle competenze di intelligenza emotiva dell’area Self Management e fasce d’età, tratte dall’analisi multivariata di varianza (MANOVA)

Nell’ultima area – la Self Direction riportata in figura 03, si riscontra ancora la predominanza della fascia medio adulta sui restanti gruppi nel far crescere l’empatia, mentre nel porsi obiettivi di valore per il futuro ritorna il trend della maturità come indice di maggiore competenza.

Figura 04. Medie delle competenze di intelligenza emotiva dell’area Self Direction e fasce d’età, tratte dall’analisi multivariata di varianza (MANOVA)

Osservazioni generali

Cosa ci dicono i risultati di questa analisi in merito alla differenza tra gruppi generazionali e intelligenza emotiva?

La prima indicazione riguarda il fatto che in tutte le otto competenze, i giovani adulti (dai 18 ai 29 anni) presentano i punteggi più bassi statisticamente significativi, rispetto alla fascia dei medi e grandi adulti (relativamente a questi, in tutti gli indicatori tranne la motivazione e l’empatia). Questo dato ci pone in accordo con tutta la letteratura scientifica che segnala la fascia d’età più giovane come maggiormente sofferente rispetto alle competenze dell’intelligenza emotiva.

La seconda informazione che emerge dai risultati dell’analisi concerne l’evidenza che le competenze più legate all’area gestionale sono maggiormente prerogativa del gruppo dei medi adulti (dai 30 ai 44 anni). Possiamo supporre quindi che, il mettersi in moto con energia per risolvere un problema, l’esecuzione immediata, la ricerca a breve termine di soluzioni funzionali e di alternative, l’apertura verso gli altri, siano tutte qualità che fioriscono maggiormente nel periodo in cui tendenzialmente siamo più alle prese con la costruzione della nostra carriera professionale; una età che appare di maggiore dinamismo, iniziativa e istinto verso esperienze di crescita in ambito lavorativo.

La terza osservazione riguarda le fasce di età più alte, in cui si evince che l’esperienza, la conoscenza esplicita, la cauta valutazione attraverso il pensiero sequenziale, la definizione mirata delle mete del proprio futuro, determinano maggiori competenze nell’area della consapevolezza e degli obiettivi di valore da conseguire a lungo termine.

La quarta ed ultima considerazione la riserviamo all’elemento della complementarità. Il quadro complessivo dei punteggi delle competenze, rileva che tutte le fasce d’età a partire dai 30 anni, concorrono in modo complementare alla formazione di un meta profilo di intelligenza emotiva, in cui i valori delle competenze singole sono rappresentati da ciascun gruppo al massimo livello.

Verso un’integrazione caleidoscopica

Riflettendo sul tema della complementarità, immaginiamo quanto sarebbe ricco un team formato da collaboratori di generazioni diverse. Ci prefiguriamo una squadra in cui si darebbe voce e spazio ad attitudini cognitive sia fluide che cristallizzate, a temperamenti più istintivi verso il problem solving e contemporaneamente più cauti e riflessivi verso l’analisi dei costi e dei benefici, a visioni proiettate più a lungo raggio e allo stesso tempo più energiche verso il raggiungimento di obiettivi a breve termine.

Un team composto da individui di varie età, rappresenterebbe un caleidoscopio di identità in cui ciascuno potrebbe esprimere il meglio delle proprie potenzialità.

Cosa ci serve per ottenere gli effetti strabilianti del caleidoscopio?

Uno degli elementi su cui puntare è il comportamento. Questo è ciò che Derek Avery, ricercatore in tema di leadership inclusiva, suggerisce nel suo articolo “Support for diversity in organizations: A theoretical exploration of its origins and offshoots”, apparso recentemente nella Organizational Psychology Review. Rispetto alla riflessione sulla diversità nelle organizzazioni, Avery parla di endorsement e activism, facendo riferimento nel primo caso alla sensibilizzazione delle persone sul tema della diversità e nel secondo caso a quanto il comportamento la supporta o la ostacola all’interno dei contesti organizzativi. Egli sostiene in particolare che gli atteggiamenti ed i comportamenti verso la diversità possono essere di quattro tipologie: a. di supporto passivo e quindi non manifesto; b. di supporto attivo e quindi manifesto; c. di opposizione passiva legata al pregiudizio ma non manifesta; d. di comportamento apertamente discriminatorio.

Lavorare sulle dinamiche relazionali che si presentano all’interno di ogni contesto specifico e avvalorare le caratteristiche individuali dei lavoratori a tutti i livelli, potrebbe essere secondo Avery una strategia efficace per affrontare le differenze di comportamento citate.

Per fare comunicare i diversi mondi che si celano dietro le differenze anagrafiche occorre quindi sviluppare quei fattori individuali che aiutano ad aprirsi alla comprensione dei vissuti dell’altro, che permettono di stabilire dei contatti più profondi e duraturi attraverso l’accoglienza e l’empatia, che favoriscono il guardare con positività e flessibilità il cambiamento organizzativo. Detto in altri termini, occorre allenare tutte quelle competenze che ci permettono di essere emotivamente più intelligenti.

A tal proposito, ci sembra interessante la provocazione che Giuseppe Riva esprime nel suo libro Nativi Digitali, in cui sostiene che essere nativi digitali non sia una questione generazionale ma di capacità. Egli intende dire che un nativo digitale non è colui che fin dalla nascita è in grado di usare nuove tecnologie, ma colui che le ha imparate in modo intuitivo e senza sforzo a seguito della quantità significativa di tempo e di energie dedicata all’apprendimento dei nuovi media. In sostanza, anche a cinquant’anni si può essere nativi digitali nella stessa maniera in cui non lo si può essere a venti. Ed ecco quindi che cadono vincoli, barriere e pregiudizi legati alle categorizzazioni ed affinché ciò possa accadere è solo questione di allenamento.

E tu, cosa sei pronto a fare da domani per migliorare la gestione della differenza generazionale nella tua azienda?

Deborah Giovannoni, Redazione EQ Biz

People Management

Persone più motivate, ruoli coerenti con le reali potenzialità e KPI aziendali integrati con le caratteristiche personali e di team.

Scopri i servizi

Articoli recenti

Archivi

Categorie